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23 luglio '18 - Storia
IL marchio di Marchionne
Se ne va il genio dell’impresa automobilistica moderna restano gli odi che ha lasciato. Difficilmente gli sopravviverà la capacità di essere impresa nel terzo millennio


Senza Marchionne non avremmo più Fiat. Si dirà: non c’è più Fiat, c’è Fca e un complesso di ingegneria industriale e finanziaria dove diversi gruppi in crisi mettono insieme le loro debolezze per continuare a dire qualcosa di vero al mercato. Tutto vero. La bravura di Marchionne è consentire che tutto questo non divenisse un modo per allungare l’agonia ma divenisse acquisizione di nuove posizioni di dominio. Tutto questo con grandi sacrifici. Innanzitutto dai quasi diecimila operai espulsi dai cicli produttivi. Ma tutto questo con lacrime amare di tanti sedicenti capitalisti che per appannaggio pensavano di essere colleghi di Sergio Marchionne. Uscendo da Confindustria Marchionne ha detto al resto del sistema malato, in cui l’impresa italiana è condannata a eterna agonia, come un dannato nello Stige, che è malato e che da solo deve trovare la sua cura. Non ci sarà più la Fiat a trainare l’Italia, gli affari di tutti e a pesare nella classe politica onde determinarne le scelte. Non a caso dopo lo scandalo fioccarono altre defezioni, Marcegaglia in testa. Ma il dato più nuovo e sorprendente era che la casa automobilistica di Torino smetteva di funzionare come il parastato. Così come l’avevano viziata Agnelli, Romiti e Ghidella. Non c’erano garanzie che dovevano arrivare dal sistema paese. Non valeva la filastrocca per cui la grande casa che aveva ricevuto tanti soldi dallo Stato doveva esserne eternamente riconoscente. E poi si sa. Non si compiono grandi svolte senza forzature e canagliate. E Marchionne fu sicuramente canaglia nel trattare i governi che si succedevano come una seccatura, un peso che gli impediva di spiccare il volo negli Usa. Fu ugualmente canaglia nel non riconoscere ai lavoratori e al sindacato un ruolo precedentemente acquisito. Ma in America col sindacato si discute giustamente su qualche dollaro in più in busta paga, non si discutono i metodi di gestione dell’impresa. L’illusione della cogestione deve finire. IL palliativo all’alienazione dell’operaio per cui gli si fa credere che un giorno l’industria sarà sua deve essere archiviato. Recupero anche di antichi metodi: una linea netta per tracciare gli esuberi. Serve. Perché tutti debbano capire chi comanda in fabbrica. Ma tutto questo sono prodromi di un metodo che significa ingresso negli Stati Uniti. Acquisizione della Chrysler. Continuazione ma da parti opposte del tavolo con la General Motors per delineare chi acquisisce e chi è acquisito. Tutto questo non si ottiene senza forzature e senza cattiveria manageriale. Ma è per questo che la famiglia più sopravalutata d’Italia lo vuole solo al comando. Oggi dobbiamo ricordare Sergio Marchionne, arrivato a quattordici anni in Canada, laureato in filosofia e poi nel resto, è stato il protagonista di questo scorcio di età della tecnica. Ed è anche questa una contraddizione perché la tecnica non dovrebbe ammettere protagonisti ma solo esecutori. In un sistema affaticato da sindacalismo incessante, ha perso qualche battaglia. Ma ha vinto la guerra. Si è rifiutato di essere portatore del nuovo anche per altri. Bisogna essere Marchionne per operare come Marchionne. Lo stile non si improvvisa. Ed è questo stile che ci mancherà.