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19 maggio '20 - Etica
Fca costa!
Sei miliardi trecento milioni la somma chiesta dalla dirigenza del gruppo automobilistico per la “resilienza alla stagione finanziaria”


Fatti i conti della serva sei miliardi trecento milioni dovrebbero esser sufficienti per pagare gli stipendi degli operai italiani per sessanta mesi, cinque anni. Sul numero dei lavoratori effettivi del grande gruppo internazionale ci sono fonti che attestano numeri diversi. Ed è in effetti difficile dare una cifra perché ai lavoratori in fabbrica va aggiunto anche l’indotto che lavora alle dipendenze della produzione automobilistica. Se contati questi si arriva a cinquantacinque mila. Ma se si contano i soli lavoratori nelle imprese a marcio Fca stiamo a 34.125. Ed a questi ultimi si pensa quando si dà la cifra del colosso industriale. In regime europeo in cui si fa orrore per gli aiuti di Stato alle imprese in difficoltà dovrebbe essere un abominio sostenere il marchio nazionale. Ma l’argomento vincente potrebbe consistere proprio nel fatto che Fca non rappresenta l’Italia di più di quanto non rappresenta gli Stati Uniti, la Chrysler e tante altre cose ancora. L’aiuto di Stato per rimettere in piedi l’impresa servirebbe quindi per stare al passo con il rafforzamento delle concorrenti. L’impresa automobilistica che fu di Torino, ma oggi ha sede in Olanda e sede fiscale in Gran Bretagna, ha il torto però di essere sempre stata in ritardo sulla competizione tecnologica e sull’innovazione. Il gap di mercato l’ha risolto sempre lo Stato, coi governi che si sono succeduti, a ripagare la fatica di stare al passo coi tempi. In Italia ha goduto dei favori dell’informazione sempre sostanzialmente a sostegno. Con un importante giornale di proprietà, La Stampa, le influenze più forti sul quotidiano nazionale, Corriere della Sera, il predominio assoluto in Confindustria che pure ha un suo giornale – IL Sole 24 Ore – le campagne pubblicitarie che sostenevano tutte le più grandi testate nessuno provava a chiedere i conti delle continue crisi. Doveva intervenire l’FLM per tentare la battaglia contro lo smantellamento dei posti di lavoro, pena la cancellazione totale dell’impresa, come paventava il compianto Sergio Marchionne. Ancora prima il Bel Paese si è dovuto digerire i passaggi tra De Benedetti, Romiti, Ghidella per tenere in piedi uno status quo che rappresentava una bella fetta del prodotto interno lordo. Oggi si conta nei termini del sette per cento. La Storia, si dirà, si ripete. Ma la novità è che si pensava fossimo alla fine di questa recita a soggetto. Con l’uscita della testa del gruppo automobilistico che guardava al mondo non più all’italietta, si pensava fossero finiti gli aiuti di Stato. E invece doveva arrivare il coronavirus per avanzare una richiesta che sarà sicuramente accettata senza condizioni perché sono questi i termini in cui la mette un gruppo di monopolio che negli anni si è succhiato Lancia, Alfa Romeo e Ferrari. “Se non mi accontenti vado da un’altra parte e ti trovi con cinquantamila disoccupati in più”. Tutto questo senza che nessuno sappia intervenire se non con acquiescenza. IL solo Carlo Calenda ci prova a twittare esortando almeno ad una posizione d’onore da parte del governo. Posizione che non ci sarà. Neanche l’opposizione dice nulla. Eppure qualcuno dovrebbe ricordare che se Fca è di nuovo in crisi non è per il coronavirus che, sicuramente ha fermato gli acquisti e la produzione, bensì perché è l’appetibilità del prodotto che non va. Eppure a scadenza gli azionisti si prenderanno dei bei dividendi. Poteva essere quello un segnale di reazione alla crisi. Bloccarli. E invece a dirlo è solo Calenda, con La Repubblica che fa parte delle nuove acquisizioni del gruppo. (Serviva avere un quotidiano in più? Perché il tema del limite alle posizioni di predominio sugli organi di informazione è stato sbandierato solo per Berlusconi?). Domande che restano sospese. Gli italiani per salvaguardare dei posti di lavoro si troveranno a dover pagare di tasca loro. E magari in molti dovranno vendersi la macchina perché non riescono ad andare avanti. Sono quelli che in piena crisi non hanno ancora beccato un euro di sostegno.