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02 novembre '21 - Estetica
Dieci anni senza il maestro Lucio Colletti
Un ricordo che vuole essere uno stimolo e un approfondimento delle sue tematiche


Se il nostro paese non fosse abitato da un esercito di trovatelli (come Montanelli definiva gli italiani) oggi si spenderebbe più di un ricordo per Lucio Colletti, morto esattamente dieci anni fa. Le inquietudini del suo tempo e gli attraversamenti intellettuali della sua persona caratterizzano l’intero dopoguerra e passano da Prima a Seconda Repubblica. Solo che le risultanze che oggi troviamo alla rilettura dei suoi testi evidentemente sono ancora scomode. Lucio Colletti si fece strada negli anni cinquanta come uno dei tanti insegnanti marxisti, lui che veniva dalla scuola di Ugo Spirito aveva guardato con fiducia all’evoluzione del socialismo reale uscito vincitore dalla guerra e in quei tempi portatore di una visione alternativa al mondo che si viveva, condannato a dover sottostare alla democristianità come prima si era sottoposto al fascismo. Erano gli anni in cui Colletti non faceva sconti nemmeno ai suoi, ma la visione della teoria della prassi doveva apparirgli un propellente che cambiava radicalmente il sistema di pensiero: “il mondo è stato finora diversamente interpretato, si tratta di cambiarlo invece”. Ma le sue evoluzioni di marxista dovettero lasciare il seminato da cui erano nate, una volta affrontati i temi che il pensiero di Marx prendeva come lascito insostituibile da Hegel che Colletti detestava nettamente fino a considerarlo un incidente di percorso dell’evoluzione umana – prendendo da Russel e Whitehead. Ma il divorzio non avveniva solo dalla lettura ortodossa di Marx di cui ammetteva a lezione: “una bella testa”. Colletti guardò con simpatia alla nuova sinistra per la sua spinta sinceramente innovativa in un mondo paludato, quale era quello del Pci, considerato una nuova chiesa coi suoi dogmi. Ben presto si allontanò anche da loro quando ne capì che la deriva ribellista e conflittuale ne costituiva la sostanza. Ritiratosi in buona solitudine intellettuale accettò l’isolamento in una fase in cui il marxismo nelle università era diventato il biglietto da visita fondamentale per far carriera. Ma i numeri di Colletti non arrivavano dall’appartenenza bensì dalle relazioni internazionali che seppe intrattenere col dibattito di quegli anni Settanta dando una grande mano alla sprovincializzazione di una discussione asfittica sui modelli di cambiamento che dovevano riguardare le società. Colletti a lezione ripeteva che in istituti seri di filosofia per capire il Novecento non si sarebbero dovuti studiare Heidegger che doveva tutto a una lettura attenta di Kant, bensì le innovazioni intervenute nella Fisico con Bohr, Max Plank, Albert Einstein … In loro c’era più metafisica che in Tommaso D’Aquino e c’era in più la nuova visione del mondo, quello che girava in terra ma andava oltre essa per quel distacco gnoseologico tanto temuto dagli esistenzialisti ancora studiati, citati e sopravalutati. Colletti vedeva in Kant il grande innovatore. Il filosofo dal quale è imprescindibile partire. E i suoi effetti, anche inconsapevoli, si vedevano in ogni pagina di letteratura filosofica dei nostri tempi. A una mia domanda su un possibile parallelismo tra Kant e Wittgenstein (giudizi sintetici a priori e proposizioni grammaticali) lui mi rispose con naturalezza: “anche io lo chiesi a Wittgenstein ma lui aveva il capriccio aristocratico di dire che non aveva mai letto Kant”. Metteva in guardia dall’uso di terminologie imperanti come identità e contrasto reale, contraddizione dialettica e contraddizione reale. E il breve saggio su questo tema resta il più grande contributo alla filosofia lasciato dal maestro. Incuteva una forte soggezione per la mole delle esperienze di vita di pensiero che aveva attraversato, ma nel rapporto coi discenti chiedeva gli fosse dato del tu, solo così accettava di dare il tu anche lui. Il suo passaggio di impegno reale più discusso fu nelle fila di Forza Italia, ma era il giusto coronamento per essere stato un pensatore a sostegno del Psi inteso come abbraccio a una visione che vede nel socialismo e nel liberalismo un orizzonte visuale imprescindibile nell’avvicinarsi del terzo millennio. È per questo che rileggere oggi Lucio Colletti costituisce un’operazione di consapevolezza dei passaggi critici che anche all’intellettualismo del nostro dopoguerra è mancato, chiuso, come era, da un nuovo dogmatismo di due chiese. Ricordarlo oggi, allora, può solo significare riprendere i suoi testi e non fermarsi mai alla risposta che appare più congeniale e a la page.