Ora che il processo penale si è concluso, con lui quello
mediatico, il nuovo quadro che rimane è quello dei vincitori e vinti. E tra i
vincitori finali è difficile inserire il povero ragazzo che ha trovato la morte
a seguito delle botte prese nel comando dei carabinieri, come dice la sentenza.
Assai più probamente però l’inchiesta avrebbe dovuto
indagare su quanto è successo in ospedale quando il ragazzo è stato
sostanzialmente abbandonato a sé stesso.
E ancora: i fari dell’inchiesta giornalistica, al di là
della vicenda giudiziaria, avrebbero dovuto mettere in rilievo il comportamento
della famiglia. La stessa, che oggi ha mosso la requisitoria più forte,
dovrebbe fare i conti sul suo silenzio quando invece il ragazzo aveva bisogno
di aiuto e lo chiedeva a modo suo: quando durante i primi giorni di detenzione
è stato letteralmente abbandonato senza un avvocato che venisse a dargli una
mano, quando in ospedale poi ci si è trovati davanti all’inevitabile.
Sì, perché gli eventi che si concatenano l’un l’altro non
aspettano i tempi morali della comprensione e della ricongiunzione presso l’idea
complessiva di una vicenda in cui i contorni prima delineati nettamente in
bianco e nero poi trovano i necessari valori di grigio.
Ora che la ricostruzione è istituzionalizzata in una
sentenza passata in terzo grado di giudizio, la vittima non mostra di avere
trovato giustizia, neanche quella morale o l’identità ricostruita di una
vicenda semplicemente molto sfortunata. Decisamente mal capitati appaiono
quelli che hanno alzato le mani, hanno prevaricato, hanno esorbitato dalle loro
prerogative di uomini d’ordine.
Un enorme baco nel sistema è quello che esce in tutta la sua
evidenza. L’immagine dell’Arma ne appare macchiata in forma indelebile. Ed è
riduttivo riportarlo ad una vicenda singola terminata tragicamente. C’è il
legittimo sospetto di molte altre vicende che non hanno conosciuto l’onore
delle cronache e tanto più di un esito così indiscutibile.
Ma il macigno in casa Cucchi non si alleggerisce. Il senso
di colpa formato sul fatto di aver escluso il ragazzo per due anni dalla vista
dei nipoti, il non essere andati in soccorso al primo fermo – probabilmente ingiustificato o almeno
eccessivo in cui il ragazzo pagava terribilmente per i suoi eccessi
caratteriali. Quel macigno che si chiama “senso di colpa” che si è prodotto
in anni di lotta strenua non va via neanche con la vittoria riconosciuta in
ogni sede giudiziale.
La vicenda di Cucchi potrà però avere il valore positivo di
restare come emblema di tanti ragazzi lasciati soli, senza difesa, colpevoli di
un’evidente insofferenza alle regole, pagano troppo cari gli effetti del senso
di rifiuto che arriva chissà da quale altro stato di cose.