Oramai le occasioni di riflessione storicistiche sono legate agli anniversari. Se arrivano col numero a zero finale è meglio. Ed è così che si riduce la necessità di ricondurre a filo di cognizione coscienziale: si ricorda e ripensa grazie alla ricorrenza. Ma tant’è. E quando capita non dobbiamo mancare la grande occasione.
Ed è per la ricorrenza al mezzo secolo che per questo 11
settembre il golpe di Pinochet ha preso il posto dell’attentato alle Torri Gemelle.
Ma a ben guardare è anche giusto così, al di là della lusinga dei numeri
secchi.
L’11 settembre 1973 destò per il nostro paese una ventata di
terrore che ha riecheggiato fino al rapimento e morte di Aldo Moro. La paura
era quella di un colpo di stato orchestrato dall’America che volgesse la
situazione politica italiana in regime militare. L’offesa al narcisismo capitalista statunitense avvenne quando il
governo socialista di Salvatore Allende volle statalizzare l’impresa del rame.
Ma il nodo centrale del colpo di stato mosse centralmente (è proprio il caso di dirlo) grazie all’opposizione della Democrazia
Cristiana cilena e le prime manifestazioni a Santiago contro il governo
socialista. Di lì la famosissima riflessione di Enrico Berlinguer per cui non
poteva darsi un governo socialista nel mondo eterodiretto dagli Stati Uniti e
dalla Nato senza un ruolo centrale al partito centrale. Di lì l’ipotesi di un “grande
compromesso storico”.
L’argomento fece scrivere fiumi di inchiostro, divampò
altrettante discussioni e la sua forza attuale sta ancora nell’interrogarsi se
quell’idea avesse un senso e se, in definitiva, fosse stata applicata in Italia
coi “governi della non sfiducia”.
Non proprio un colpo di stato ma un colpo ben assestato al
cuore dello stato avvenne all’esordio di quel governo del pentapartito che
prevedeva l’ingresso indiretto del Partito Comunista Italiano al governo. Fu il
rapimento e morte di Aldo Moro. Di lì l’autopromozione dei comunisti al governo
gradualmente andò scemando e il loro ruolo si mantenne nelle amministrazioni
locali e regionali, ma anche in un controllo a distanza della cogestione
demo-socialista.
Questo per dire che la lezione cilena insegnò e segnò molto
il nostro paese. Più di altri in Europa, perché meno esposti nei confronti
degli Stati Uniti e meno suscettibili di stravolgimenti verso il mondo dell’Est.
Impossibile quindi parlare di quel sanguinario colpo di
stato, dei circa diecimila omicidi politici perpetrati, senza guardare alle
ripercussioni interne nel sistema-italia
eternamente in crisi.
La riflessione che anche in quegli anni non mancò, invece,
fu che proprio prendendo le consegne dai fatti del Cile si doveva dedurre che
col mondo centrista non sarebbe stato possibile nessuna coabitazione. Proprio
il contrario di quanto Enrico Berlinguer andò a teorizzare con improbabile filo
teorico.
Era chiaro che in quel quadro la spinta verso il cambiamento
degli schemi sociali nella gestione politica poteva avvenire solo come
testimonianza o adesione a una grande utopia. Un mondo diverso non era
possibile. E in fondo il mondo della contestazione questo lo sapeva benissimo.
Era un riformismo presentato come fallace sincretismo dei diversi che non era
accettabile, ancor meno del mondo contestato.
Ma l’epilogo più triste di questa vicenda fu proprio nella
figura di Pinochet che ebbe modo di spegnersi ad età avanzata, a casa, senza
assistere alla damnatio memoriae in vita del suo pessimo esempio di governo.